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Audio Review 121 Amplificatore finale Kent Toni Jop

amplificatore finale KIimo Kent

Dicevano che erano sparite, non molti anni fa. Dicevano che erano sparite perché erano superate. Dai freddi, ma "perfetti" transistor. Superba linearità, silenziosità, millimetrica risposta alle sollecitazioni imposte dalle prove tecniche di laboratorio. L'Alta Fedeltà, a quel tempo, aveva trovato un altro dei suoi fuggevoli Eldorado. E poi, i transistor, erano pratici: sembravano dotati di vita pressoché eterna e manifestavano problemi di warm-up nettamente meno critici delle valvole. Preistoria. Ricordo che nessuno più acquistava macchine d'Alta Fedeltà se prima non venivano esaltate per il loro comportamento impeccabile sui banchi di misura. Fermi: non era idiota il principio di quella attenzione ai risultati tecnici delle prove, ma lo era insopportabilmente la fede cieca nel visibile, nel misurabile, nella equazione mistica che legava una buona risposta della macchina sul tavolo operatorio alla capacità della stessa macchina di restituire un messaggio musicale vicino non a una equazione ma alla irripetibile, complessa lordura del messaggio originale. Ci credevo? Per quanto poco importante possa essere ciò a cui credevo e a cui non credevo, devo ammettere che la tentazione di arrendermi all'onda era forte. Alla tentazione di omologarsi, anche in Alta Fedeltà, alla grande massa si resiste, come in altre situazioni analoghe, assai difficilmente. Difficile, oggi, resistere alla tentazione di arrendersi alle sorgenti digitali e alla loro presunta "perfezione"; difficile, ieri, non cedere allo stato solido. Così, resistevo:
avevo amplificatori a transistor, e talvolta a fet, ma sognavo le valvole. Fra una forma originale di resistenza, simile a quella di chi se la passa con una "cozza" (qualcuno obietterà che le "cozze" non sono mai andate di moda, ma io sono sicuro del contrario: ricordate quando le ragazze se non erano filiformi e fortemente asteniche non se le filava nessuno?) mentre sogna le morbide convessità di, per esempio, Kelly NcGyllis. E ancora più arduo è il tentativo, per chi abbia ceduto ad una visione del mondo, quella digitale, per citarne una vicina ai nostri interessi, di uscire dalla comodità della "casa" e delle sicurezze in cui ad un certo punto è entrato, spontaneamente spinto dalla grande onda lunga. Non sono scemo e non lo sono nemmeno quei miei cari amici che hanno iniziato ad interessarsi di Alta Fedeltà dopo la commercializzazione massiccia del digitale: ora distinguono un finale a stato solido da uno a valvole e 9 volte su dieci scelgono i tubi. Ma guai a suggerire loro di provare anche una sorgente analogica, modesta ma pulita. Io li tento con la costanza di un inesorabile rompicoglioni ma vengo sempre meno gentilmente respinto: reagiscono come se non riuscissero a sopportare nemmeno il profumo di un ricordo legato ad anni bui della loro, attualmente serena, esistenza; un ricordo che inconsapevolmente rischio di portare alla luce. Uno dei più simpatici e acuti bastardi che io conosca, onorevole rappresentante di questa teutonica schiera di digitalisti, ha vuotato il sacco (senza pentirsi):
"Nessuno di noi - ha detto al rompicoglioni - ha voglia di mettere in discussione quel che abbiamo tra le mani. Suona meglio una sorgente analogica? Avrai ragione. ma non mi passa neanche per la testa di scoprirlo a mie spese". Capito? Hanno paura. Come degli etereosessuali che non si infilano un kilt scozzese davanti ad uno specchio per timore di scoprirsi omosessuali. E perché credete che si siano affezionati alle valvole, benché sui banchi di misura siano generalmente meno docili dei transistor? Perché hanno bisogno di umanizzare, di rendere più naturale, più "sporca", più dolce la "geometrica, dinamica potenza" dei loro milionari lettori di CD. Il mercato, questo l'ha capito e quasi non c'è più produttore di elettroniche che non abbia in catalogo una linea di amplificatori a valvole. Per non contare quei produttori di lettori digitali che i tubi li hanno infilati proprio sotto quel piccolo raggio laser che ha venduto, fin qui, grossolane felicità a prezzi non sempre contenuti. Chi lo diceva? "Chi s'accontenta muore, e non lo sa". Non vorrei, per questa mia ostinazione filoanalogica, passare per uno di quei "verdi" integralisti che sognano di abolire la moneta e di tornare al baratto delle merci, di provenienza agricola, ovviamente. Chissà perché, di fronte a queste proiezioni mi pare all'improvviso che la più grande conquista dell'umanità sia stata strappata dai dentisti con la messa a punto di trapani sempre più raffinati e indolori. Viva la tecnica. E viva anche le valvole, che quando sono bene servite - spiacente per lo stato solido non hanno rivali nella riproduzione musicale. Tranne alcuni ben noti soggetti: mi sono tolto il cappello pochissime volte di fronte a dei transistor e, ricordo erano quelli del D400 della Audio Research (che ancora uso come finale di riferimento alternativo), oppure quelli di larga parte della produzione di JeffRowland. Tra i costruttori che sanno usare le valvole come si deve e non perché sono molto scenografiche, c'è un tedesco che ama la musica e che per questo motivo realizza con passione finali e preamplificatori allo Stato dell'Arte da molti anni. Mister Klimo non ha bisogno di presentazioni tra gli audiofili consumati, ma per alcune sue personali scelte costruttive, che spiegherò, meriterebbe l'attenzione e il plauso della grande massa.
Da giorni maneggio con vero piacere due sui "finalini" che non cessano di stupirmi e ai quali mi sto affezionando perché suonano a livelli di eccellenza, perché sono belli, piccoli, compatti, domestici, gentili "messaggeri d'amore". Klimo non ama il gigantismo: sa che in poco spazio si possono compiere dei miracoli; Klimo ha il senso della misura e non ti invita a infilare tra le mura domestiche solenni cascate elettroniche; sa quante valvole servono e dove piazzarle, sa realizzare prodotti di gran classe ed è in grado di offrirli agli audiofili di - quasi - tutte le tasche senza penalizzare i meno abbienti. Ecco, il prezzo: questi due Klimo Kent/Silver, vale a dire la versione cablata con cavo di riferimento Van Den Hul MC Silver, costano poco più di quattro milioni; se costassero il doppio, continuerei a ripetere che sono comunque soldi ben spesi. Invece, costano la metà. Ma devo prima raccontarvi come appaiono e come suonano.
La base è un piccolo parallelepipedo di metallo cromato che pare lucidato da mister Harlev Davidson; sul retro, da sinistra a destra, la presa di corrente alloggiata in uno zoccolo nero (che in basso ospita anche il pulsante di accensione), l'ingresso di segnale dorato, le due uscite servite da un paio di grossi serrafilo. Dal top, sempre cromato, emergono due grossi trasformatori neri, allineati lungo il bordo posteriore e due coppie di valvole (due EL34 e altrettante ECC83) disposte in prossimità del bordo frontale: ciascuna è circondata da una gabbietta metallica nera che, stilisticamente, dialoga con le teste dei trasformatori. Sulla fascia frontale, a sinistra, il logo, in rilievo, della Klimo: una "K" molto gradevole, argentata. Nell'insieme, un oggetto dotato di una sua armonia vagamente "postindustriale", fascinosa ma con discrezione. Da vedere. Mister Klimo potrebbe essersi laureato all'università del pensiero di doctor Dunhill, il più celebre fabbricante di pipe del mondo:
come le pipe di Dunhill, le macchine Klimo sembrano seguire una linea progettuale che le vuole piccole, compatte affidabili confortevoli, semplici. Trentacinque watt costanti da 16 a un ohm, a patto che siano collegati secondo le necessità dei diffusori.
Ho staccato il D115 Audio Research e anche il D400 della stessa casa dall'amatissimo SP11 Audio Research (l'ho acquistato ormai sei anni fa, alla sua prima uscita e non me ne sono più separato) e vi ho collegato i due Klimo Kent (scusate quest'altra parentesi: i finali si chiamano Kent, il pre della stessa casa si chiama Merlin; tra romantiche regioni della vecchia Inghilterra e druidi celtici, il signor Klimo manifesta un sentimento filoinglese pari solo a quello, meno esplicito ma certamente più sofferto, di mister Hitler che sognava di vendicare l'incapacità tedesca a preparare il pudding radendo al suolo la "perfida Albione"). Nel collegamento ho usato due Van Den Hul MC Silver mentre, dal pre ai diffusori ProAc EBS, ho mantenuto i Tara Temporal Continuum; a monte, il Goldmund Studio, braccio Goldmund T3F, testina Koetsu Red Signature, cavi di segnale Siltech Silver. Da qualche tempo, come forse ricordate, ho sistemato tutto su un paio di tavoli della GM che hanno rivoluzionato il suono del mio sistema, in meglio ovviamente. Se avete bisogno di pezzi su misura (a me è capitato) telefonate a mister Blanda, il patron, e lui vi servirà. Costa un po', ma non state lì a misurare la lira per questi componenti decisivi dopo aver speso un mucchio di soldi per altri accessori di scarsa utilità. Per esempio, un buon tavolo sotto il vostro giradischi di cui ritenete di conoscere vizi e virtù da anni vi farà scoprire nella vostra macchina un'anima che non avete mai sospettato. Sul Goldmund, ho appoggiato una consueta e conosciuta Joni Mitchell, "Blue" una "vecchia" registrazione molto equilibrata, con un missaggio molto naturale. Il primo pezzo, "California".
Trentacinque watt? Che senso ha oramai contare i watt davanti a questi piccoli Klimo? La scena che mi si apre di fronte è amplissima e, dopo circa un'ora di preriscaldamento, centrata, per nulla oscillante come invece può accadere con valvolari della stessa classe di prezzo: una scena buona in larghezza, ottima in altezza e profonda in un modo incredibilmente realistico. A proposito di quest'ultima caratteristica dirò ancora e meglio. La voce della Mitchell è piena, vorrei dire "grande", calda, eppure precisa tesa ma senza asprezze, trasparente, musicale. Un colpo di fulmine? Cosa volete che vi dica, io, a parlar bene di un prodotto e meglio di un altro non ci guadagno niente, perciò fidatevi della mia esperienza, del mio disinteresse e soprattutto della mia inguaribile, relativa, povertà economica. La chitarra, poi, è dolce, asciutta, rotonda ma inflessibile, niente addomesticata; cristallina quando sale nei registri alti, giustamente rugosa quando si "arrabbia" nella fascia dei medi, delicatamente profonda quando scende verso il basso. Un'altra sorpresa: i due Klimo Kent non trattengono nulla del messaggio elaborato dall'SP11; il segnale li attraversa pressoché senza incontrare resistenze o sacche di decantazione per cui, dai diffusori, la musica esce con radiosa naturalezza, tutta intera condita con quei particolari impressionistici (respiri, picking nervosi, microsolfeggi vocali normalmente sepolti sotto una traccia strumentale) che trasferiscono un sistema di riproduzione dalla terra all'Olimpo e l'ascoltatore dal purgatorio al paradiso. Potevo cambiare disco, oramai incuriosito e gasato; e poi avevo scoperto, in queste due scatole argentate, una attitudine non frequentissima nei finali anche di buona qualità a riprodurre sorprendentemente la profondità della scena. Ci avete mai fatto caso? Il più delle volte, un dignitoso sistema di riproduzione musicale si limita ad offrire una immagine bidimensionale dell'esecuzione e, molto spesso, cerca di vendere al posto della terza dimensione, la profondità, una accettabile distribuzione delle frequenze in modo che ciò che non deve suonare immediatamente davanti a voi suoni solo un po' più in alto rispetto a tutto il resto. Ecco, non so se sono riuscito a spiegarmi. Allora, ho lasciato scivolare la Koetsu su una facciata a caso di Wings over America, musica targata Mc-Cartnev non molti anni dopo la separazione, la più dolorosa della storia, dei Beatles. (Rispetto a questo evento, mi ritengo a pieno titolo un traumatizzato degno della pensione di invalidità permanente: la ferita non si è mai chiusa, nemmeno dopo l'uccisione di John Lennon, e da allora io vivo come un povero demente al quale tutti ripetono che la mamma è morta e non c'è più niente da fare, mentre lui risponde col sorriso sulle labbra che la mamma è solo partita e che un giorno tornerà e, prima di dormire gli canterà, come quand'era piccolo, She loves vou e Run for your life). E un concerto, molto più "antico" di quello, citatissimo, di Simon e Garfunkel a Central Park, quindi meno pregiato sotto il profilo della qualità della registrazione ma McCartney e i suoi Wings sono in un momento di grazia stellare. "Venus and Mars", "Rock Show". So già cosa c'è che non va all'origine nell'incisione; una insopprimibile legnosità affligge soprattutto le basse frequenze ma sono un audiofilo che non si compra un disco solo perché è inciso bene; ho visto gente spendere un sacco di milioni per acquistare un buon sistema di riproduzione e poi spenderne quasi altrettanti per garantirsi una discoteca di edizioni speciali dopo aver buttato tutti i vecchi LP perché "era un peccato ascoltare cattive incisioni con tanto impianto": che il cielo possa farli diventare sordi, quella è gente che picchia i bambini. Non avevo sentito male: ho un palco davanti a me, un palco atfollato di musicisti. La voce di McCartney è leggera, ariosa e non grippa mai, nemmeno quando si arrota e la gola pare squarciarsi (lo sa fare solo lui, dioloconservi) in un rock duro assai poco fine e anche per questo adorabile. E dietro di lui, chi più chi meno, i suoi Wings; e sempre dietro ma un pò più in alto la batteria; povera batteria, maltrattata dalla registrazione, ma presente in modo superlativo, per quel che può dare, sui piatti. Una scena profonda, lo ripeto, così come poche altre volte mi è capitato anche con finali di potenze, e presunzioni, nettamente più forti. I due Klimo Kent hanno stoffa da vendere nella riproduzione di musica registrata dal vivo, questo l'ho capito. Ma nei labirinti oscuri del minimalismo del jazz di frontiera? La risposta è quasi scontata dato che, a quanto mi suggerisce l'esperienza, chi ben si comporta nel "casino" del rock se la cava alla meglio in atmosfere rarefatte. Allora, ecco un disco "cattivo", una prova dura:
"Fragments", con Paul Bley al piano, John Surman ai fiati, BilI Frisell alla chitarra e Paul Motian alla batteria. Questa è una registrazione impeccabile, come molte altre della ECM e il risultato del lavoro di questi ottimi musicisti mi pare davvero buono; è musica vera. Ed e davvero esaltante seguire la trama sottile che lega le note di pianoforte ai guizzi e agli allunghi dei sassofoni, all'isterica spazzolatura dei piatti e del rullante. Esaltante perchè ogni suono emerge dal nulla, dallo zero assoluto, dal silenzio con precisione millimetrica e si espande nell'aria occupando tutto lo spazio e il tempo che gli competono; e gioca con gli altri suoni senza fastidiose sovrapposizioni, senza parziali cancellature laddove il mix si fa più intenso e nervoso e sembra voler contraddire il primitivo ordine delle cose. Una straordinaria pulizia che non viene meno neppure in occasione dei passaggi più complicati, quando il piano di Paul Blev trascina, perché così deve essere, le code delle note fin quasi allo spasimo e poi ecco di nuovo il silenzio, totale, infinitamente breve, ma totale. Al pari di altri finali di classe, a valvole, i due Kent hanno la capacità di farti capire subito qual è il livello di volume appropriato per ascoltare una riproduzione: una volta che lo hai raggiunto non devi più muoverlo da lì perché lì c'è un brandello di realtà; altrove, invece, c'è inutile enfasi, in un senso o nell'altro. Quindi, poco conta l'osservazione che, una volta superato quel punto di equilibrio - verso l'alto - si va presto incontro ad una perdita di misura, di morbidezza, di trasparenza, di delicatezza del messaggio musicale. Queste non sono macchine da discoteca. E rispetto all'usuale "difetto" dei valvolari, la difficoltà a "chiudere" definitivamente alcune dinamiche veloci alle basse e bassissime frequenze questi finali hanno di molto ridotto lo scarto esistente tra una circuitazione valvolare e una a stato solido. Certo, non sono ai livelli di un D115 Audio Research, ma, ad esempio, i vecchi, e giustamente lodati, Quicksilver, cedono il passo. Parlo dei vecchi perché li conosco bene, i nuovi, invece, non li ho ancora ascoltati. Incantevole è il loro comportamento con la musica classica. Li ho provati, in particolare, con un brandello del Pastor Fido (6 Sonaten Op. 13) di Vivaldi edito dalla Archiv. I violini sono setosi, certo, ma con un pizzico di brio e di vivacità che aggiunge elementi di verosimiglianza alla categoria della setosità: il violino è uno strumento poderoso, dotato di una energia grandissima, capace di sonorizzare, senza amplificazione, ambienti vastissimi con modesti accorgimenti; ha la capacità di modificare la sua "voce" più volte in tempi brevissimi e a volte non si limita ad attraversare decisamente l'aria, ma la taglia e con una certa asprezza, per giunta. Così, verosimili, musicali, a grana finissima, si affacciano sulla scena i violoncelli, i fagotti, i cembali. Due macchine davvero straordinarie che l'ho detto, non tacciono nulla e che hanno una bellissma voce, la loro voce. Il costruttore sostiene che le loro qualità dipendono in larga misura dalle caratteristiche (non spiegate) del trasformatore d'uscita. Quel che è certo è che non ho mai sentito un finale di questa fascia di prezzo suonare e cantare a questo modo: i due piccoli Klimo Kent sono un riferimento. Ascoltateli, e poi provate a dire che c'è qualche cosa che non va. Se vi accade, correte da un buon otorinolaringoiatra.

Toni Jop

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